lunedì 5 luglio 2010

Mistero: una raccolta di racconti a cura di Nicola Roserba

Mistero. Non conosco un’altra parola che abbia lo stesso effetto immaginifico di questa. Non è questione di terrore – o di orrore. Non si tratta di quella paura che ti attanaglia le budella e ti toglie il respiro. Parlo di quella sensazione agrodolce che ti carezza la spina dorsale con un tocco leggero, gelido.
Quella che ti fa rimanere in silenzio, perché percepisci, intuisci, di essere di fronte a qualcosa di più grande – e antico – di te. L’impossibilità di comprendere è fonte di stupore in sé. Quando contempliamo qualcosa di prosaico, terreno, che possiamo capire, come per esempio un thriller, questo non avviene.
Autori: Simone Lega, Stefano Pastor, Luigi Musolino, Nicola Roserba, Alfredo Mogavero, Giordano Efrodini, Federica Maccioni, Daniele Picciuti.

Con queste parole, del curatore e coautore della raccolta Nicola Roserba, si apre questa antologia di autori emergenti, edita da Il Mondo Digitale Editore. E sono parole che non posso che condividere, perchè il mistero ci affascina proprio perchè incomprensibile, sfuggevole. Agrodolce, come dice Nicola.
Ho l'onore di comparire in questa raccolta con il racconto "Il libro di Malanina", accanto a nomi di autori emergenti che, ve lo assicuro, con le parole ci sanno davvero fare. Ragazzacci simpatici che bazzicano sul forum di Edizioni XII e nei laboratori di scrittura del web.

L'antologia è disponibile in formato cartaceo o e-book a un prezzo davvero contenuto, considerando anche l'ottima introduzione di Luigi Milani e le splendide illustrazioni interne curate da Paola Preziati.

Vi lascio con gli incipit dei testi presenti nell'antologia e con un ringraziamento a Nicola, a Paola e a tutti gli altri autori!


I monacheddi, di Simone Lega

All'epoca - erano gli anni quaranta - dicevano tutti di vivere a Siracusa, ma in realtà parlavano dell'isolotto di Ortigia. Oggi Ortigia è solo un quartiere, ma allora oltre il mare non c'era che campagna incolta. L'isola era piccola, stretta tra edifici bassi e storti, puzzolente e grigia, vecchia e marcia. Era bellissima.

Ai tempi o eri pescatore, o muratore. Mio padre né l'uno né l'altro: faceva il netturbino. La spazzatura la lasciavano dietro le porte, e mio padre doveva salire le strette e viscide rampe di gradini caricandosi i sacchi sulle spalle. Era magrolino, e a sera tornava a casa distrutto. Ma sorrideva sempre. Aveva un gran bel carattere.

I pantaloni, però, li portava mia madre. Me la ricordo seduta sulla sedia di paglia, che cuce o legge dal suo libro di cucina.

Intendiamoci: all'epoca la fame ci divorava. C'era gente che si sarebbe scannata per un pezzo di pane, e lei possedeva questo libro grosso come un mattone e leggeva ricette che non avrebbe mai cucinato. Che senso avesse, non l'ho mai capito; e a chiederglielo rispondeva:

«Così appena mi fate arrabbiare ben bene, con un colpo in testa vi ammazzo!»

Scherzava, ma noi bambini avevamo sempre paura che i genitori ci uccidessero, perché sapevamo leggere l'angoscia sui loro volti quando non avevano di che sfamarci.



Ranocchio, di Stefano Pastor

È quasi un rito: alla sera, dopo cena, quando Mario e i ragazzi sono di sotto a guardare la partita, io mi ritiro in camera. Non sono molto appassionata di sport, e ho sempre qualcosa da fare. Stasera, per esempio, mi sono rimasti ancora alcuni temi da correggere.

Mi affaccio alla finestra a guardare la vecchia quercia di fronte a me; basterebbe allungare una mano per toccare i suoi rami. È bellissima, ma presto le sue foglie ingiallite riempiranno di nuovo il prato, e sarò costretta a litigare con Mario, come tutti gli anni, perché lui la vuole tagliare.

Non restano molti temi da correggere, nel pomeriggio ho lavorato parecchio. Armata della mia matita bicolore, mi accomodo alla scrivania e comincio.

Il tema che ho assegnato potrebbe sembrare banale: La mia famiglia. Eppure è un espediente essenziale per conoscere meglio i miei alunni, e sono solita proporlo ogni anno.

Amo i bambini, e amo il lavoro che mi sono scelta. È piacevole entrare in menti così giovani, scoprire i loro sogni, i loro desideri.

Le parole scorrono davanti ai miei occhi e io sorrido spesso della loro ingenuità.



Il libro di Malanina, di Luigi Musolino

In quella ventosa nottata di novembre, quando il cordless mi trascinò fuori da un sonno ostinato, pensai subito a mia madre.

Era anziana, affetta da una brutta forma di enfisema: sembrava l'opzione più logica. Tirai su la cornetta. Sbagliavo.

«Pronto?» dissi. Dall'altra parte un debole singhiozzo.

«Chi è?»

«Gigi... sono Sara.» Parole spezzate da respiri affannosi, un suono liquido di lacrime e catarro. Sara, la moglie del mio migliore amico, Piero Scola; un omone di cinquant'anni che portava cravatte vistose, adorava Cesare Pavese e aveva fatto dell'antropologia il fulcro della sua vita. Insegnava presso il Dipartimento di Scienze Antropologiche dell'Università di Torino, ed era uno dei migliori. Fino a quella notte, quando

intraprese il definitivo salto nel buio.

«Sara, che è successo?»

«Vieni subito, Gì. Sono alle Molinette. Piero... è caduto, io non so. Non so come ha fatto.» Era sconvolta. Scoppiò in un pianto disperato che mi parve più terribile di tutto ciò che poteva essere accaduto. «Aveva... aveva le ossa delle gambe di fuori!»



Oltre la collina, di Nicola Roserba

Nubi candide rotolavano nel cielo blu delle Orcadi, incorniciate nella finestra della camera.

Lei sedeva, ai piedi del suo letto, e ammirava l'immensità degli spazi fuori dalla stanza. Lo faceva tutte le mattine. Un sorso d'infinito prima di iniziare una nuova giornata.

Viveva sola, Rowena, nella fattoria che sua madre le aveva lasciato insieme a tanti ricordi di un'infanzia che era durata troppo poco.

Coltivava la sua terra, senza vedere all'orizzonte altro, per il suo futuro, che quello che le donava la natura tutte le mattine.

Che fosse bello o brutto, il tempo, colorava la natura intorno alla ragazza di colori e profumi che lei aveva imparato ad amare. La sua esistenza scivolava placida, come l'acqua fresca del ruscello che dava vita ai campi, e a lei non serviva altro che quella sensazione di pace, e di comunione col Creato.

Non era tanto un farsi andar bene gli scherzi che la vita le aveva giocato, quanto un sentirsi al proprio posto, e non avvertire alcun bisogno di avere di più.



L'occhio di Arge, di Daniele Picciuti

La tenebra è come il mare di notte. Mi scivola sulla pelle con movenze calde, vischiose, accogliendomi nel suo invisibile abisso. Non è solo una sensazione, ma qualcosa di tangibile, che avviluppa ogni respiro, mozzandomi il fiato, soffocando questa gola riarsa dalla salsedine.

La porta davanti a me è chiusa. Ne intravedo il profilo al chiarore di quella luna lontana che brilla oltre la finestra, gialla come un melone maturo.

Tocco la maniglia, abbassandola piano, e spingo avanti l'uscio.

Dentro è ancora più buio che nel corridoio.

Entro cauto, richiudendomi la porta alle spalle, poi aspetto qualche secondo, in modo che gli occhi si abituino a quella tetra assenza di luce. Potrei cercare l'interruttore e illuminare la stanza, ma sarebbe più semplice aprire la finestra e buttarmi nel vuoto, lasciando che il mare mi accolga tra i suoi neri flutti. Forse soffrirei meno che se mi prendessero loro. Cerco di non pensarci, di concentrarmi su quello che sto cercando.

Mi basta un coltello, una cosa qualsiasi da poter usare.

Non so se Maria sia qui ora, in ogni caso devo procurarmi un'arma. Non doveva andare così!

È tutto sbagliato...



La ragazza spezzata, di Alfredo Mogavero

La testa in frantumi, la schiena spezzata

In fondo al burrone se ne sta adagiata

Sempre da sola, di notte e di giorno

Parla coi corvi che le volano attorno

«Forse la mia anima è troppo pesante per staccarsi e salire in Paradiso», disse la ragazza spezzata. «Non ricordo di aver commesso peccati gravi, Sybil, eppure deve esserci qualche motivo se sono ancora prigioniera di questo ammasso di carne marcia e ossa rotte quaggiù nella scarpata.»

«I tuoi peccati non c'entrano niente, bambina», la rassicurò il corvo, zampettandole su un braccio laddove i tendini venivano risparmiati dalle formiche. «Avevi solo diciassette anni quando ti ho vista volare giù dall'orlo dello strapiombo come un angelo disperato, ed eri più pura della prima neve d'inverno.»

«Ero bella, allora, Sybil?»

«Lo sei ancora. Sei tanto bella.»

Una nuvola transitò dinanzi alla fetta di luna che se ne stava a picco su di loro, coprendola, e per alcuni istanti le tenebre furono padrone incontrastate della notte. Il corvo sfregò il piccolo capo contro una guancia della giovane, per farle sentire che le era vicino.



Il canto di Cuculo di Giordano Efrodini

Udite il mio Canto, voi che vivete tra cielo e terra. Genti del nord, dell'est, del sud e dell'ovest. Questo Canto, che scorre nel sangue e vola nel vento, giunge fino a voi.

Le Custodi c'insegnano che il Popolo degli Uomini nacque dal Vecchio Padre e dalla Vecchia Madre, cielo e terra sopra e sotto di noi, uniti al principio del tempo per concepire la vita. Da loro vennero la Piccola Madre, colei che ci disseta, e il Piccolo Padre, che ci riscalda e protegge. In fine Sole e Luna, che vegliano sulla creazione.

Ma il mondo era avido di altra vita, così vennero gli Amma, spiriti della natura che crearono animali e piante a loro immagine, secondo la volontà del Vecchio e della Vecchia. Il più astuto di questi era la Volpe, colui che intrecciò i destini di uomini e Spiriti.

Pelorosso vide che tra tutte le creature, poiché generato dal Vecchio e dalla Vecchia, il Popolo degli Uomini non poteva essere ferito o distrutto. Forti e coraggiosi, non temevano nulla, arrivando a paragonarsi agli stessi Amma.

Così, il Briccone non resistette alla sfida, e con bei discorsi si disse ammirato dalla nostra gente, che avrebbe meritato la conoscenza degli Spiriti.



Sa Filonzana di Federica Maccioni

Il turno di guardia volgeva al termine.

Efisio si muoveva cauto. Sotto le querce possenti si udivano solo i suoi passi e il lieve tintinnio della cartucciera, che urtava il fucile a tracolla.

Di notte era poco probabile che qualche viandante si avventurasse lassù; ma i gendarmi avrebbero potuto farlo, nel tentativo di sorprenderli nel sonno. Se fossero venuti i carabinieri, loro quattro contro chissà quanti, non avrebbero avuto altro scampo che una fuga silenziosa. Per questo Efisio rendeva leggeri i passi sulle foglie, e tendeva l'orecchio ai suoni portati dalla brezza, fra i tronchi segnati dalle ferite sanguigne della sughereta.

Il ruscello cantava la sua canzone sempre uguale, poco lontano.

L'acqua brillava dei radi riflessi di luna filtrati attraverso le foglie, e pareva d'argento.

Il giovane bandito sedette a terra, appoggiò le spalle al fusto di una quercia e aprì la bisaccia.

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