lunedì 14 marzo 2011

I vermi conquistatori: traducendo l’Apocalisse

Volete sapere come ci si sente a tradurre il romanzo di uno dei migliori autori horror moderni, Brian Keene, e quali sono gli ostacoli, le difficoltà e le soddisfazioni che s’incontrano durante un lavoro del genere?
A due settimane dall’uscita de I vermi conquistatori per Edizioni XII, il romanzo apocalittico che tanto interesse ha suscitato tra gli appassionati negli ultimi mesi, faccio il punto sul lavoro di traduzione in un articolo che potete leggere sul blog di Edizioni XII.
Enjoy!



domenica 27 febbraio 2011

L'attesa è finita, I vermi conquistatori sono arrivati

Un Diluvio di proporzioni bibliche.
Lo spettro dell’estinzione che balla sui resti della civiltà.
E i destini di un manipolo di uomini e donne che s’intrecciano in una sconvolgente battaglia per la sopravvivenza.
Mentre cose che dormivano da millenni si stanno risvegliando.



L’ora è giunta. 
I vermi conquistatori, il romanzo horror-apocalittico di Brian Keene che tanta attesa ha suscitato negli ultimi mesi tra gli appassionati del fantastico, sta finalmente per invadere le librerie dello Stivale. Il volume sarà infatti disponibile dal 28 febbraio (oh, domani!) sull’eshop di Edizioni XII e da metà marzo in tutti i negozi di libri.

Difficile esprimere a parole la soddisfazione per il risultato finale, impossibile ringraziare adeguatamente Edizioni XII per avermi dato la possibilità di tradurre quest’opera grandiosa. 

Sono stati mesi intensi e faticosi, inutile negarlo: tradurre un romanzo è impresa quantomeno impegnativa, ma far parte di una redazione valida e affiatata come quella dodicina mi ha permesso di affrontare il lavoro con grande serenità. Grazie a tutti voi, davvero. 

Nello specifico un abbraccio a Daniele Bonfanti, revisore della traduzione ed editor del volume, a Simone Corà e Strumm, autori della revisione finale del testo, al duo artistico Diramazioni, che con la loro copertina (guardatela, guardartela, non è stupenda?) hanno messo la ciliegina sul romanzo dello scrittore statunitense,  e all’Altissimo Matteo Poropat, che tutti si dimenticano sempre dell’impaginatore, figura indispensabile per la buona riuscita del prodotto.

E non dimentichiamoci dei brutti ceffi che per primi hanno parlato di Brian Keene nel nostro paese, innescando un proficuo passaparola attraverso i loro blog, Elvezio Sciallis e Alex McNab.
Che gli Déi Lombrico veglino su tutti voi a lungo!

C’è poco altro da aggiungere, ma lasciatemi dire che durante la rilettura finale del testo mi sono ritrovato più volte a fregarmi le braccia per scacciare la pelle d’oca. Spero possiate provare gli stessi brividi e le stesse emozioni che ho provato io.

Abbandonatevi al Diluvio, dunque, sbirciate nell’Apocalisse.
Sono sicuro che non rimarrete delusi.


lunedì 21 febbraio 2011

Recensione: Dweller di Jeff Strand


Prima di leggere un paio di entusiastiche recensioni riguardanti Dweller su alcuni blog americani (Grade Z Horror e Shroud Magazine), non conoscevo Jeff Strand. Incuriosito, mi sono procurato il volume in formato ePub.
Vi consiglio davvero di fare altrettanto. Per quanto mi riguarda, siamo di fronte a uno scrittore dotato d’immenso talento e personalità da vendere.

Classe 1970, Strand nasce a Baltimora, ma i suoi genitori si trasferiscono in Alaska quando ha appena sei mesi. Bambino precoce, comincia a leggere a tre anni e a scrivere a sei. Innamorato di Spider-Man e di tutto ciò che è “fumettoso”, dedica tempo ed energie alla scrittura, riuscendo a piazzare i primi racconti durante il liceo.
Dotato di un senso dell’humour piuttosto bizzarro (date un’occhiata alla chilometrica bio sul suo blog!) Strand ha all’attivo diversi romanzi e raccolte di racconti, e nel 2008 è tra i finalisti del Bram Stoker Award grazie a Pressure, nella categoria Miglior Romanzo.

Dweller è l’ultimo lavoro dello scrittore americano, pubblicato dalla Leisure Books nel 2010. Ed è una bomba, il classico page-turner, come dicono gli americani. Uno di quei libri che una volta iniziati non si riescono più a mollare.

Toby ha otto anni. Vive coi genitori in una villetta il cui cortile confina con un immenso bosco. Un giorno si allontana dall’abitazione e si perde nel dedalo di alberi.
E fa un incontro, un incontro spaventoso.
Lì, nel profondo delle vegetazione, Toby s’imbatte in un gigantesco mostro peloso con grossi occhi gialli infossati nella testa, dotato di zanne e artigli che solo a vederli c’è da farsela sotto.
Il bambino scappa, riesce a ritrovare la strada di casa. Racconta tutto a mamma e papà, che ovviamente non gli credono e lo puniscono per essersi spinto da solo nella foresta.
Pian piano, la visione scivola nei ricordi, si offusca. Toby si convince d’essersi immaginato tutto. Fantasia infantile, che altro?

Questo l’incipit del romanzo, narrato in prima persona con uno stile semplice ma accattivante, fluido. Dopo tre pagine… bum, catturati, poco da fare. Era dai tempi delle prime letture dei volumi di Brian Keene che non mi trovavo di fronte a una prosa tanto scorrevole e diretta, senza per questo risultare banale o scontata.
Strand, poi, dimostra un’abilità unica nel fondere horror e commedia, paura e scene al limite del comico.
Ma la vera chicca del volume è il modo in cui l’autore decide di narrarci la vicenda e la vita del protagonista. A balzi temporali in fast forward.
Dopo il primo incontro di Toby con la creatura, Strand fa un salto nel futuro di sette anni…


Toby è un quattordicenne. Ragazzino senza amici, depresso, a scuola è continuamente perseguitato da due bulli non solo gradassi, ma proprio cattivi. Fino al midollo. Gli piantano la testa nel cesso, lo picchiano, gliene fanno di tutti i colori. Toby sopporta, e dopo le lezioni fa lunghe passeggiate in solitaria nei boschi dietro casa, sognando di prendersi una bella rivincita sui suoi aguzzini.
Un pomeriggio come tanti altri,  scorge la creatura. Il primo incontro avuto da bambino, dopotutto, non era stato un parto della sua immaginazione. Il mostro è reale. Toby è terrorizzato, così terrorizzato che non riesce neanche a fuggire. E allora tenta un approccio con l’enorme ominide irsuto che, nonostante l’aspetto minaccioso, se ne sta tranquillo davanti all’ingresso di una caverna.
Un semplice cenno di saluto segna così l’inizio di un’incredibile amicizia tra Uomo e Bestia, un rapporto amore-odio che durerà mezzo secolo.
Toby dà un nome al suo mostro, Owen, e qualche tempo dopo gli consegna anche un lauto pasto: i due bulli che l’hanno maltrattato per anni. Questo terribile segreto lega ancora di più i due, che col trascorrere del tempo entrano in una stravagante intimità, elaborando persino un rudimentale linguaggio dei segni.
Owen non parla, ma sa farsi capire. E, soprattutto, sa ascoltare.


Strand ci guida con mano sicura lungo l’intera esistenza di Toby, alternando momenti di grande tenerezza e complicità tra i due amici, a scene che per ferocia sono un vero e proprio pugno nello stomaco.
Durante la lettura seguiamo Toby nelle varie tappe che segnano profondamente ogni essere umano: primi amori, sesso, lavoro, matrimonio, figli. Il tutto scandito dalla presenza costante di Owen il Mostro, l’unico che rimane sempre accanto a Toby anche nei momenti bui, l’unico sempre disposto ad aiutarlo. Spesso utilizzando i suoi affilatissimi artigli…


Oggigiorno è difficile trovare qualcosa di nuovo, qualcosa che brilli nella sconfinata produzione fantastica mondiale. Dweller brilla, brilla come un diamante purissimo.
Una lettura che mi ha lasciato pienamente soddisfatto, capace di commuovere e sorprendere, miscelando orrore e spunti da commedia per un risultato finale brioso e innovativo. 
Strand sa il fatto suo, e ha creato una piccola perla. 

Non lasciatevi scappare questo libro, e non fatevi frenare dalla lingua: visto lo stile piuttosto semplice e privo di orpelli del romanzo, a mio avviso è sufficiente una conoscenza scolastica dell’inglese per affrontare la lettura senza troppi problemi.
Trovate il libro un po' ovunque (Amazon, Play.com, Diesel eBook Store) a un prezzo veramente stracciato, meno di cinque dollari. Non avete scuse!

lunedì 14 febbraio 2011

Il mio racconto "In bilico" in formato ePub!



 Ogni tanto è bello ricevere un regalo. Inaspettato, nel bel mezzo di una giornata che non sta andando proprio nel migliore dei modi.
Oggi mi è arrivata una mail dall’amico Matteo Poropat che mi ha fatto estremamente piacere. Ricordate il mio racconto In bilico, pubblicato qualche settimana fa sul blog? Be’, lo Sciamano, responsabile publishing di Edizioni XII e ideatore della bella realtà di servizi editoriali eBook and eBook, ha convertito il racconto in formato ePub e creato un’accattivante copertina. Una sorpresa che mi ha risollevato la giornata, ecco.
Il racconto in formato digitale è scaricabile aggratis dalla pagina dedicata su eBook and eBook, dove potete trovare molti altri lavori interessanti, oppure cliccando sulla copertina qua sopra.

Io e il Poropat siamo legati da una passione per tutto ciò che gravita intorno all’universo lovecraftiano e suppongo che il suo gesto, vista anche la festività odierna, sia una sorta di atto d’amore. Anche se lui non lo ammetterà mai! ;)
Scherzi a parte, grazie davvero per l’ottimo lavoro. Diciamo che ti sei fatto perdonare quel messaggino notturno con cui mi hai convinto a iscrivermi alla Royal Rumble!

venerdì 11 febbraio 2011

Recensione: Vanishing on 7th Street di Brad Anderson


Io per Brad Anderson nutrivo delle speranze. Davvero. Non che i suoi film precedenti mi avessero fatto gridare al miracolo, ma Session 9 era un ottimo esempio di come si possa realizzare un buon thriller soprannaturale con pochi mezzi e una sceneggiatura valida, mentre L’uomo senza sonno puntava tutto sulla metamorfosi fisica di Christian Bale, mostrando però interessanti spunti visionari e una tecnica registica niente male. Insomma, seguivo Anderson con interesse, considerandolo uno dei cineasti più promettenti dell’ultima generazione.
Purtroppo, Vanishing on 7th Street spazza via quanto fatto di buono dal regista statunitense in un’ora e mezza di pura inconsistenza filmica.
La trama: un blackout totale precipita la città di Detroit nell’oscurità. Quando torna la luce, la maggior parte degli esseri umani si è volatilizzata, lasciando dietro di sé una scia di abiti vuoti, veicoli abbandonati e interrogativi per i pochi rimasti. Il sole, col passare dei giorni, tramonta sempre prima, fino a scomparire del tutto. L’oscurità è una cosa viv,a e inquietanti profili umani di tenebra sono in agguato ovunque. L’unico modo per difendersi è procurarsi una qualsiasi fonte luminosa e non farsi toccare dalle ombre.
Quattro sopravvissuti (un reporter, una donna che ha perso il figlio, un ragazzino di colore e l’addetto alla sala proiezioni di un cinema) trovano rifugio in un bar dove la corrente è alimentata da un generatore a benzina. Il buio preme sullo stabile, pronto a ghermirli. Cosa faranno una volta finito il carburante per il generatore?
Fin qui, niente che non si sia già visto: la tipica apocalisse di natura ignota che spazza via l’umanità, lasciando alcuni poveracci a vedersela con la sopravvivenza. Brad Anderson non ci aveva certo abituato a storie particolarmente originali, quanto piuttosto a un’approfondita analisi psicologica dei personaggi, sempre ricercata, mai banale. In Vanishing on 7th Street questo elemento viene a mancare e siamo costretti a sorbirci le inconcludenti azioni di quattro fantocci in balia di una notte perenne. Non c’è un minimo di spessore, un filo di approfondimento che faccia emergere una figura rispetto a un’altra. Solo qualche flashback a illustrarci come si sono salvati dall’annullamento definitivo i quattro.
C’è da smaronarsi di brutto, a vedere questo film. La prima mezz’ora è un tripudio di vestiti vuoti afflosciati sulle sedie, per le strade, nelle automobili. Non so voi, ma io dopo venti minuti di espressioni terrorizzate dei protagonisti di fronte a tanti di quei capi d’abbigliamento che nemmeno a una sfilata di D&G, avevo già voglia di mollare la visione.
Nel bar la situazione non migliora. Comincia il balletto delle supposizioni, delle ipotesi sull’origine della catastrofe. Qui c’è da divertirsi al cospetto delle banalità che escono dalla bocca dei personaggi.  Interpretazioni mistico-religiose del tipo: “siamo all’inferno, forse è stato Dio, se ci facciamo prendere dalle ombre magari andiamo in paradiso”. Complimenti. Il ritmo del film passa dal livello-lumaca al livello-tartaruga.
La palpebra si risolleva quando viene tirata in ballo l’inquietante vicenda della colonia perduta di Roanoke, che alla fin fine, però, pare buttata lì tanto per alimentare il mistero e creare ancora più confusione in una sceneggiatura già confusionaria di suo. Peccato, perché questo avvenimento storico poteva essere sfruttato in modo decisamente migliore e costituire un’ottima base per la pellicola.
Anche la recitazione non fa nulla per risollevare le sorti di Vanishing on 7th Street: Hayden Christensen nel ruolo del reporter avrebbe potuto benissimo interpretare una delle ombre, tanta è la sua espressività, mentre John Leguizamo e Thandie Newton offrono una prova fatta di espressioni esagerate e comportamenti isterici che risultano presto poco digeribili.
Fotografia e scenografie dai toni cupissimi, ma niente che possa rivaleggiare con le tonalità malate e disturbanti di L’uomo senza sonno.
Per chiudere, in questa pellicola non c’è nemmeno qualcosa con cui appagare l’occhio, se non effetti digitali di un piattume desolante (ombre, ombre che strisciano sempre e ovunque, realizzate neanche tanto bene).
Peccato, perché dalla vicenda di Roanoke, da quel Croatoan lasciato inciso dalla colonia scomparsa su una palizzata, avrebbe potuto nascere qualcosa di buono.
Per me questo film è stata una profonda delusione. Da evitare, sperando che il buon Anderson rinsavisca…