Gli horror grandguignoleschi mi piacciono, niente da dire; ma ho sempre pensato che quelli in cui la componente ematica è minima abbiano una marcia in più. Insomma, trovo sia più difficile inquietare basandosi unicamente su una buona storia che versando ettolitri di sangue e frattaglie. E infatti questo Session 9, del bravo Brad Anderson (regista dell’acclamato L’uomo senza sonno), l’ho apprezzato parecchio.
Uscito nel 2001, si basa su una storia avvincente e originale.
Gordon Fleming, titolare di una ditta di bonifica e neopapà con una situazione familiare non proprio rosea, ottiene l’appalto per eliminare l’amianto da un manicomio abbandonato, chiuso nel 1985. Sin dalle scene iniziali del sopralluogo Anderson ci prende per mano e ci conduce in lunghi corridoi pieni di sporcizia e macerie, in cui ammiccano inquietanti sedie a rotelle e s’intrecciano enormi condotti e tubature.
Alcuni giorni dopo i cinque operai dell’impresa cominciano il risanamento. Ma le operazioni prendono subito una cattiva piega: tra i lavoratori esistono dissapori e tensioni, che paiono intensificarsi col passare dei giorni e la permanenza nel manicomio. Inoltre una sinistra presenza sembra aleggiare nel complesso e alcuni nastri audio ritrovati in un vecchio archivio svelano la terribile vicenda di una giovane paziente dell’ospedale psichiatrico, Mary, afflitta da disturbi della personalità. L’inquietante passato dell’edificio s’intreccia col presente, e il nervosismo si trasforma in terrore quando un operaio svanisce nel nulla.
Anderson è molto capace nel delineare la psicologia dei personaggi (uno ha la fobia del buio, uno problemi con la moglie, altri due litigano continuamente per una storia di donne) e le loro relazioni, affrescando una discesa da incubo nella mente del protagonista principale (un ottimo Peter Mullan.) La pellicola scorre senza cali di tensione, mantenendo la suspence sempre molto alta e spiazzando lo spettatore con numerosi “ribaltoni.” E la colossale presenza del manicomio è il palcoscenico ideale per raccontare questa storia di fragilità mentale e precarie relazioni personali.
Punti forti della pellicola:
- una solidissima sceneggiatura di Anderson e Stephen Gevendon (anche attore nella pellicola), che calca la mano sulla psicologia dei personaggi, intrecciandola in maniera molto sottile con un passato oscuro;
- una location spaventosa, un complesso maestoso, realmente esistente, che si erge a protagonista principale. Un po’ come quell’Overlook Hotel che tanti incubi ha regalato agli appassionati della paura su celluloide, così l’ospedale psichiatrico di Session 9 rappresenta il punto d’incontro tra un macabro passato e l’anima tormentata del protagonista;
- una colonna sonora distorta e malata, perfetto accompagnamento per una vicenda di follia.
Il film non è esente da difetti, in primis una fotografia che a volte non convince – l’inesperienza del giovane Anderson un po’ si fa sentire – e scelte di montaggio che in alcuni casi generano confusione. Ma sono imperfezioni risibili di fronte a un film che dimostra come sia possibile confezionare un ottimo prodotto pur senza affidarsi a produzioni esagerate e a effetti speciali da baraccone. Un low-budget dimenticato, una piccola chicca da riscoprire.
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