sabato 5 settembre 2009

Lovecraft e Carpenter nelle fauci della follia.


Sono trascorsi quasi quindici anni da quando uscì questo film e ancora oggi è uno degli horror che rivedo più volentieri. All’epoca, dopo la visione, pensai: “Questo è ciò che volevo.” A mio avviso era la prima volta che qualcuno riusciva a trasporre il famigerato cosmic horror su celluloide, senza risultare pretenzioso o ridicolo, ma soprattutto senza mai citare direttamente Lovecraft. Chi se non John Carpenter poteva riuscire in una simile impresa?
Di seguito riporto una mia recensione-saggio (titolato come questo post) pubblicato qualche mese fa sul numero 9 di Studi Lovecraftiani, uscita della Dagon Press dedicata al cinema ispirato all'opera del gentiluomo di Providence.

Suggerire il Male con la M maiuscola, citare culti blasfemi dimenticati da millenni, far scivolare lentamente l’impossibile, l’Alieno – nella sua accezione più ampia – all’interno delle pieghe del reale, ridurre la razza umana ad un mero burattino nelle mani di un pantheon di entità inimmaginabili, sono alcune delle caratteristiche portanti della letteratura lovecraftiana; caratteristiche che, sapientemente amalgamate, vanno a creare un’atmosfera di orrore sesquipedale, elevatissimo, che il Maestro di Providence battezzò “Cosmic Horror”.
Rielaborare l’assurdo universo partorito dalla fervida immaginazione dello scrittore americano tramite un mezzo “passivo” come il cinema (che non richiede, al contrario della lettura, un grande sforzo intellettuale e immaginifico da parte dello spettatore) è impresa ardua. Numerosi registi hanno tentato, fallendo miseramente nell’impresa, altri hanno unicamente utilizzato il nome HPL come specchietto per le allodole. Pochi hanno colto nel segno, pochissimi.
La letteratura del maestro è costituita essenzialmente di sensazioni e atmosfere, un approccio alla short story che rivela la profonda capacità del papà dell’horror moderno di far leva su paure ataviche dell’animo umano, materializzando disagi e ossessioni all’esterno, negli insondabili abissi stellati. Trasporre il senso di orrore cosmico su pellicola è un’impresa molto spesso destinata a fallire in partenza. Gli abomini lovecraftiani che tramano nel mare dell’infinito sono così orribili proprio perché così smisurati, talmente al di là della concezione del reale che gettare un semplice sguardo nel loro universo equivale alla morte o – nel migliore dei casi – alla follia.
Lovecraft, che era un sottile conoscitore dei meccanismi psicologici che generano la paura, immetteva nei suoi racconti squarci di orrore brevi e vastissimi, lasciando alla fantasia del lettore la personale visione dell’incubo. Pochi altri scrittori (forse solo Algernon Blackwood e Arthur Machen) sono stati capaci di suscitare un senso così elevato di straniamento, di qualcosa che è troppo al di sopra per essere compreso. Ciò è dovuto anche al finissimo approccio descrittivo lovecraftiano, soprattutto per ciò che concerne gli ambienti e l’architettura; Michel Houellebecq, nel suo saggio H.P. Lovecraft, contro il mondo, contro la vita, sostiene che “la lettura di queste descrizioni dapprima stimola e poi scoraggia ogni tentativo di adattamento visivo (pittorico o cinematografico che sia)”
I registi che hanno saputo riprendere in maniera esemplare stilemi e atmosfere dell’opera di Lovecraft – magari aggiungendo un pizzico d’originalità e della loro perturbata visione del reale – si possono contare sulle dita di una mano.
Uno squarcio nella sguarnita tela della cinematografia lovecraftiana arriva nel 1995 con un film inusuale, apocalittico e capace come pochi altri di comunicare quel senso di alienità strisciante tanto caro al sognatore di Providence: Il Seme della Follia.
Il regista di questa pellicola è John Carpenter, da sempre cineasta coraggioso e avverso ai dettami dell’ Hollywood business, creatore di capolavori assoluti ma anche di pellicole poco sopra la sufficienza.
Già con l’uscita de La Cosa i riferimenti alla mitologia Cthulhiana erano palesi, se non altro per la claustrofobica atmosfera Antartica e per la creatura aliena intrappolata dalla notte dei tempi nei ghiacci perenni, che non potevano non ricordare il romanzo breve Alle montagne della follia. Ma con In the Mouth of Madness il salto in avanti nell’esplorazione dell’universo lovecraftiano su celluloide è di dimensioni quantiche.
In una lettera datata 17 ottobre 1930 HPL scrisse a Clark Ashton Smith:
“Più rifletto sulla narrativa soprannaturale, più mi convinco che per preparare adeguatamente la comparsa dell’elemento fantastico occorra una cornice solida e realistica. E’ mia convinzione che nessun racconto soprannaturale sia in grado di produrre il terrore se non è costruito con la cura e la verosimiglianza di un’autentica beffa.”
Carpenter, per la realizzazione della sua pellicola, sembra aver colto alla perfezione il significato di queste parole: il quadro di partenza del film è assolutamente odierno e reale, imperniato sul mondo dell’editoria e delle assicurazioni.
John Trent, un cinico investigatore assicurativo, è assunto dalla casa editrice Arcane per far luce sulla scomparsa di Sutter Cane, “ lo scrittore dell’orrore che vende più di Stephen King”, e recuperare il suo ultimo romanzo in fase di completamento, In the Mouth of Madness. Tutto inizialmente appare come una bufala montata ad arte per vendere qualche copia in più del libro; ma subdolamente Carpenter fa scivolare l’orrore nella vicenda con rara maestria. Trent trova strani indizi nelle pubblicazioni di Sutter Cane che lo portano, accompagnato dalla redattrice della Arcane, a Hobb’s End, tetra cittadina non segnalata sulle mappe situata nel profondo New England. Nel frattempo, fenomeni di violenza inaudita, legati alla lettura delle opere di Cane, cominciano a manifestarsi in ogni parte del mondo.
Da questo punto in poi la pellicola è puro delirio lovecraftiano, sebbene HPL non sia mai citato in modo diretto. Trent comincia a rendersi conto che i luoghi, i personaggi, le situazioni che gli si presentano non sono altro che passi dei romanzi di Cane, e che quei libri hanno il potere di agire sulle menti degli uomini e di richiamare nel nostro mondo entità innominabili. Realtà, fantasia e letteratura si fondono in un incubo allucinante, un inesorabile progredire verso l’avvento di una nuova era, di cui Cane è l’inquietante Profeta e Trent una pedina con un ruolo ben preciso, mossa da forze che vanno oltre la comprensione umana.
I parallelismi con l’opera di HPL sono evidenti, ma presentati in un’ottica originale e moderna, che non scade mai in facili citazionismi. L’intelligenza della pellicola di Carpenter sta proprio nel saper trasmettere il cosmic horror evitando espliciti riferimenti al solitario di Providence e ai suoi racconti, disseminando il film di velati richiami che ogni appassionato di letteratura weird scoprirà con piacere.
Il romanzo di Cane ricorda infatti il Necronomicon, il tomo maledetto generatore di follia e mezzo per richiamare sulla terra i Grandi Antichi. La stessa figura dello scrittore è passibile di numerose interpretazioni: alcuni vedranno in essa l’arabo folle Abdul Alhazred, il redattore del libro sacrilego, altri ancora Nyarlathotep, il messaggero dei Grandi Antichi. O forse Carpenter – grande fan di HPL – con questo personaggio ha voluto rappresentare lo stesso sognatore di Providence, vero e proprio creatore di miti e rivoluzionario della narrativa del soprannaturale?
Il protagonista del film, dopo aver letto alcune opere di Cane afferma “sono polpettoni da quattro soldi, la cosa strana è che sono scritti meglio di quanto ci si aspetti” : un atteggiamento che la critica letteraria ha riservato per anni verso l’opera lovecraftiana, salvo riconoscerne solo in seguito la grande capacità visionaria e perturbatrice nell’ambito della letteratura fantastica.
Cane, così come il Nostro, è un creatore di mondi, i lettori sono stregati dalle sue opere, e da un certo punto di vista è proprio quello che HPL è riuscito a fare: creare un nuovo universo, una vera e propria mitologia che con l’ausilio dell’immaginazione pare quasi possibile, conquistandosi la stima ed il rispetto – ahimè postumi – di migliaia di lettori in tutto il globo.
Il regista si dimostra profondo conoscitore della componente architettonica che è uno dei punti di forza dell’opera lovecraftiana: la cittadina deserta avvolta da un’innaturale atmosfera di sospensione, le strade deserte ricoperte di foglie, le vecchie banderuole a vento che cigolano nella notte, le fattorie e serre in disuso, il lugubre albergo gestito dalla signora Pickman, coi suoi quadri rappresentanti esseri deformi, richiamano alla mente dello spettatore le bizzarre descrizioni di Arkham, Dunwich, Innsmouth… E poi c’è la chiesa nera, “una chiesa bizantina con guglie alte cinquanta metri e sormontate da cupole dorate,” sede del male e rifugio dello scrittore, che si staglia imponente contro un cielo turchese nitidissimo, una sequenza che fa correre più di qualche brivido lungo la schiena…
Analizzando il percorso filmico de Il seme della follia ogni appassionato delle opere di Carpenter non potrà fare a meno di notare la sua atipicità: le sceneggiature carpenteriane sono solite calare i protagonisti in situazioni di assedio, dove la componente claustrofobica è dominante (vedi Fog, La Cosa, Vampires, Fantasmi da Marte, Distretto 13); il percorso narrativo di questa pellicola è invece quello del viaggio, un itinerario nell’ignoto e nel potere creatore e allo stesso tempo destrutturante della narrativa fantastica
Il tragitto percorso dai protagonisti per giungere a Hobb’s End è agghiacciante (terribile la sequenza del vecchio dai capelli bianchi sulla bicicletta) e il labile confine tra fantasia e realtà comincia a venir meno una volta giunti nella cittadina deserta.
Il film è zeppo di scene disturbanti, e qui Carpenter si dimostra geniale nel proporre visioni fulminee, sequenze brevissime, quasi subliminali, che si stampano in maniera indelebile nella mente dello spettatore: i bambini deformi che si aggirano per Hobb’s end, la già citata Chiesa Nera, una strana creatura anfibia che si contorce nella serra dell’albergo, il manicomio, le ultime apocalittiche scene finali, in cui Trent si aggira per le strade della città devastata, vestigia di un’umanità ormai prossima all’estinzione e all’avvento di una nuova era.
La computer grafica è bandita e i buonissimi effetti speciali sono curati dal giovane Greg Nicotero, oggi considerato uno dei maestri indiscussi degli FX. Le sue creature robotiche tentacolate hanno un fascino retrò in perfetta sintonia con le tematiche trattate.
L’orrore non è mai mostrato nella sua totalità (le scene splatter sono praticamente assenti), ma solo suggerito tramite atmosfere rarefatte, flashback disturbanti e soprattutto attraverso un tragico clima di ineluttabilità tipico dei racconti lovecraftiani: arrivare a vedere, gettare uno sguardo nell’abisso, a ogni costo, pur consci delle fatali conseguenze.
La prestazione degli attori è ottima, Sam Neil ispiratissimo nel ruolo dell’investigatore assicurativo, dapprima scettico e cinico, poi sempre più atterrito, incredulo, esasperato, mano a mano che l’incredibile bandolo della matassa comincia a dipanarsi. La prestazione di Prochnow nei panni dello scrittore maledetto è da manuale: la sua interpretazione si limita a circa dieci minuti di film, ma vi occorrerà molto tempo prima di dimenticare il suo ghigno beffardo quando afferma “Ti ho mai detto che il mio colore preferito è il blu?” Vedere per credere…
E per una volta la visione finale dei Grandi Antichi non risulta ridicola, ma piuttosto efficace, grazie alle sapienti inquadrature di alcuni particolari anatomici – zanne, tentacoli, occhi malefici – visioni fuggevoli di qualcosa che sappiamo essere molto più grande e spaventoso.
Le sequenze finali del film, con Trent che vede rappresentate al cinema le sue vicissitudini, racchiudono alla perfezione la summa del pensiero lovecraftiano: finzione e realtà, quotidianità e sogno sono divisi da un confine sottile, valicabile in ogni istante dal caos e dalle forze ignote all’uomo.
E quando iniziano a scorrere i titoli di coda, pensando a HPL e alle sue opere, alla sua influenza ancora una volta palese in un piccolo capolavoro come In the Mouth of Madness, non potrete far altro che ripetervi la stessa domanda che ricorre nella pellicola: “Quando la letteratura diventa religione?”

3 commenti:

  1. Bellissimo post! Splendido blog! Ritornerò!

    RispondiElimina
  2. porc... troverò il tempo di leggerla tutta, ne ho letto alcuni pezzi, per "saggiarti" e caspita, sei un recensore-scrittore coi fiocchi.
    intanto complimenti!

    RispondiElimina